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L'IGNORANTE di Giambattista Basile

Indice III | II | I | Spotlights | Controcorrente

Prefazione

Giambattista Basile

Giambattista Basile
(1575-1632)

Giambattista Basile è uno degli autori di maggior spicco nell'ambito della letteratura favolistica di tutti i tempi. Nato a Napoli (Giugliano?), ebbe una movimentata giovinezza militare che lo portò da Venezia alla Grecia. Nel 1612 fondò a Napoli la celebre Accademia degli oziosi. Sua sorella Adriana una delle più note "cantatrici" dell'epoca molto apprezzata anche alla corte di Francia usò tutta la sua influenza per aprire al fratello la carriera di scrittore e di poeta. Scrivendo in napoletano (oltre che in italiano ma con scarsa fortuna), Basile darà un contributo notevole  nel caratterizzare questo "dialetto" come lingua di grande creatività letteraria.
La sua opera più importante
Lo cunto de li cunti chiamata anche successivamente Pentamerone come debito non soltanto strutturale ma anche linguistico nei confronti del Decamerone di Giovanni Boccaccio è una raccolta di cinquanta favole narrate da dieci anziane in cinque giorni, con ciascuna giornata che si chiude con un’egloga (dialogo) di argomento morale recitata da due servi-attori. Le novelle del Cunto non erano state scritte per una lettura solitaria, ma mirate ad un'elaborazione ludica collettiva: le parole non erano un nucleo chiuso da rispettare e interpretare, ma materiale da usare, distorcere e far vivere nel cambiamento e nella drammatizzazione. Il cumulo poi delle metafore che percorrono l'opera, la rendono davvero unica e preziosa. Benedetto Croce definì il Pentamerone «il più bel libro italiano barocco» e ― aggiunse ― «l’Italia possiede nel Cunto de li cunti del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari».
Lo cunto de li cunti è stato tradotto in italiano (il primo da Benedetto Croce, l'ultimo con una doppia riscrittura napoletana e italiana da Roberto De Simone), tedesco, inglese e persino in dialetto bolognese. Fu tenuto in massima considerazione dai fratelli Grimm, e le novelle più celebri furono poi rielaborate in forma artistica dal Perrault nei Contes de ma mére (Racconti di mamma oca).
L'ignorante è una delle fiabe più belle ed è l'ottavo passatempo della terza giornata. Ad una attenta lettura,  essa dischiude una infinità di preziosi insegnamenti al manager di oggi: la scelta dei collaboratori, il lavoro di squadra,  la condivisione (anche economica) del successo. «Prattecare deverze gente sceta lo 'ngiegno, affila lo iodizio e fa l'ommo spierto», dice Basile. Tutto questo, e non solo, dalle avventure di un «figlio cossi sciaurato e da poco che non sapeva canoscere le scioscelle da le cetrole».
Luca Liguori (8 dicembre 2003)

L'ignorante
Moscione è mandato dal padre a commerciare al Cairo per allontanarlo da casa, dove faceva l'arciasino, e, incontrando per strada passo dopo passo uomini abili, se li porta appresso e grazie a loro se ne torna a casa tutto carico d'argento e d'oro.

Non mancarono intorno al principe cortigiani che avrebbero mostrato la collera nel sentirsi toccati sul vivo, se la loro arte non fosse stata appunto quella della simulazione, né saprei dire se gli avesse dato più fastidio il dispetto di vedersi rinfacciata la loro furfanteria o l'invidia di sentire della felicità di Corvetto; ma, cominciando a parlare, Paola tirò fuori dal pozzo della loro passione il loro cuore con l'uncino di queste parole: "Da sempre fu lodato molto di più un ignorante che frequenta uomini virtuosi piuttosto che un uomo saggio che pratica gente dappoco: perché quanto grazie a quelli può guadagnare vantaggi e grandezze, tanto per colpa di questi può perdere sostanze e onori e, se con la prova del bastoncino si riconosce il prosciutto, dal caso che vi racconterò conoscerete se è vero quanto vi ho detto.

C'era una volta un padre, ricco come il mare, ma, dato che non si può avere una felicità completa sul mondo, aveva un figlio così sciagurato e dappoco che non sapeva distinguere le carrube dai cetrioli: per questo, non riuscendo più a digerire le sue sciocchezze, gli diede un bel mucchio di denari e lo mandò a commerciare a Levante, sapendo che vedere vari paesi e praticare genti diverse sveglia l'ingegno, aguzza il giudizio e rende l'uomo capace.

Moscione, così si chiamava il figlio, salito a cavallo, cominciò a galoppare verso Venezia, arsenale delle meraviglie del mondo, per imbarcarsi su qualche vascello che andasse al Cairo. E, dopo aver viaggiato un intero giorno, trovò uno che stava fermo ai piedi di un pioppo e gli disse: «Come ti chiami, giovane mio? di dove sei? e che arte conosci?». E quello rispose: «Mi chiamo Furgolo, sono di Saetta, e so correre come un lampo». «Vorrei averne una prova», replicò Moscione. E Furgolo disse: «Aspetta un po' e vedrai se è polvere o farina!». E aspettando un pochino ecco una cerva per la campagna e Furgolo, dopo aver lasciato che andasse un tratto avanti per darle più vantaggio, si mise a correre così velocemente e con piede così leggero che sarebbe passato su una distesa di farina senza lasciarci la forma della scarpa, tanto che in quattro salti la raggiunse. Per questo Moscione, meravigliato, gli disse se voleva restare con lui, l'avrebbe pagato profumatamente e, poiché Furgolo era d'accordo, continuarono il viaggio insieme.

Ma non avevano camminato per altre quattro miglia che incontrarono un altro giovane, a cui Moscione disse: «Come ti chiami amico? di che paese sei e che arte conosci?». E quello rispose: «Mi chiamo Orecchie-di-Iepre, sono di Vallecuriosa e, mettendo le orecchie a terra, senza muovermi sento quello che succede al mondo, ascoltando gli accordi e gli intrighi che combinano gli artigiani per aumentare i prezzi delle merci, le malazioni dei cortigiani, i cattivi consigli dei ruffiani, gli appuntamenti degli innamorati, gli accordi dei ladri, le lamentele dei servi, i rapporti delle spie, i pissi-pissi delle vecchie, le bestemmie dei marinai, tanto che il gallo di Luciano e la lucerna di Franco non vedevano quanto vedono queste mie orecchie». «Se questo è vero», rispose Moscione, «dimmi: che si dice a casa mia?». E quello messe le orecchie a terra disse: «Un vecchio parla con la moglie e dice: - Sia lodato il Solleone, perché sono riuscito a togliermi dagli occhi quel Moscione, quella faccia di tasca vecchia, quel chiodo del mio cuore, che almeno, camminando per il mondo, diventerà un uomo e non sarà più così bestia come un asino, un falcaccio, un perdigiorno!)». «Basta, basta », disse Moscione, «dici la verità e ti credo! perciò vieni con me, hai trovato la tua fortuna». «Vengo», disse il giovane.

E, cosl andandosene insieme, percorse altre dieci miglia trovarono un altro a cui Moscione disse: «Come ti fai chiamare, uomo dabbene mio? dove sei nato e che cosa sai fare su questo mondo?». E quello rispose: «Mi chiamo Cecadritto, sono di Castello-tira-giusto e so colpire con tanta precisione con questa balestra che taglio a metà un giuggiolo». «Vorrei vedere questa prova», replicò Moscione e quello, caricata la balestra, presa la mira fece saltare un cecio da sopra una pietra, per questo Moscione se lo prese come l'altro per sua compagnIa.

E, dopo aver viaggiato per un altro giorno, incontrò certi uomini che costruivano un bel molo sotto la vampa del sole, che avrebbero potuto con ragione cantare: Parrella, aggiungi acqua al vino, perché mi brucia il cuore; gli fecero tanta compassione che gli disse: «E come, mastri miei, avete la forza di restare in questa calcara, dove si potrebbe cuocere una placenta di bufala?». Uno di quelli rispose: «Noi stiamo freschi come rose perché abbiamo un giovane che ci soffia da dietro tanto che sembra che soffi il vento di ponente». E Moscione disse: «Lasciatemelo vedere, e dio vi guardi». E quando i muratori chiamarono il giovane, Moscione gli disse: «Come ti fai chiamare, accidenti a mio padre? di che paese sei? e che sai fare?». E quello rispose: «lo mi chiamo Soffiarello, sono di Terraventosa e so fare con la bocca tutti i venti: se vuoi zefiri ti faccio felice, se vuoi refoli faccio cadere le case». «Non ci credo se non lo vedo», disse Moscione e Soffiarello soffiò dapprima dolcemente dolcemente, sembrava il vento che soffia a Posillipo verso sera e, voltatosi all'improvviso verso alcuni alberi, soffiò un tale vento furioso che sradicò tutto un filare di querce. Vedendo questo Moscione se lo prese per compagno.

E, dopo aver camminato per altrettanto tempo, incontrò un altro giovane e gli disse: «Come ti chiami, non prenderlo per un comando? di dove sei, se si può sapere? e che arte conosci, se è permessa la domanda?». E quello rispose: «Mi chiamo Forteschiena, sono di Valentino e ho questa capacità: mi metto una montagna sulla schiena e mi sembra una piuma». «Se cosi fosse», disse Moscione, «meriteresti di essere il re della dogana e porteresti il palio il primo di maggio, ma ne vorrei vedere la prova». E Forteschiena cominciò a caricarsi di pezzoni di pietra, di tronchi d'albero e di tanti altri pesi che non li avrebbero portati mille grandi carri. Quando vide questo Moscione si accordò perché restasse con lui.

E cosi, camminando, arrivarono a Belfiore, dove c'era un re che aveva una figlia che correva come il vento e sarebbe stata capace di correre sui broccoli in fiore senza piegarne le cime e che aveva pubblicato un bando: a chi l'avesse vinta nella corsa l'avrebbe data in moglie e avrebbe tagliato il collo a chi fosse rimasto indietro.

Moscione, arrivato in questo paese e sentito questo bando, andò dal re e si offri di correre con la figlia e, fatti buoni patti: o muovere i piedi o lasciarci la zucca, la mattina fece capire al re che gli era preso un malanno e, non potendo correre lui stesso, avrebbe fatto correre al posto suo un altro giovane. « Venga chi vuole », rispose Ciannetella, che era la figlia del re, «perché non me ne importa un fico secco e ce n'è per tutti».

Cosi, la piazza era piena di gente che voleva vedere la corsa, gli uomini si affollavano alle finestre come formiche e i terrazzi erano pieni come uova, comparve Furgolo, che si mise a un'estremità della piazza aspettando il segnale di partenza. Ed eccoti venire Ciannetella con una gonnella rimboccata: a mezza gamba e con una scarpetta a una suola bella e attillata, che non era di misura superiore al dieci. E, allineati spalla a spalla e sentito il tarantara e il tutù della trombetta, si misero a correre tanto che i talloni gli toccavano le spalle. Pensa che sembravano lepri inseguite dai levrieri, cavalli fuggiti dalla stalla, cani con le vesciche sulla coda, asini con un bastone infilato là dietro.

Ma Furgolo, che era tale di nome e di fatto, se la lasciò più di un palmo indietro e, arrivati al traguardo, avresti dovuto sentire le urla, i guarda là, il chiasso, gli strilli, i fischi, i battimani e piedi della gente che gridava: «Viva viva lo straniero!». Per questo Ciannetella arrossi come il culo di uno scolaro che ha preso la bastonatura, scornata e offesa nel vedersi vinta.

Ma, poiché la corsa doveva essere ripetuta due volte, pensò di vendicarsi di questo affronto e, andata a casa, fece subito un incantesimo a un anello: a chi lo teneva al dito si piegavano le gambe tanto che non avrebbe potuto camminare, non soltanto correre, e lo mandò in regalo a Furgolo, perché lo portasse al dito per amor suo.

Orecchie di-lepre, che senti di questa congiura tra la figlia e il padre, stette zitto e attese l'esito della faccenda e quando al trombettìo degli uccelli il Sole frustò la Notte sull'asino delle ombre tornarono in campo e, dato il solito segnale, cominciarono a muovere i talloni. Ma non tanto Ciannetella sembrava un'altra Atlanta quanto Furgolo era diventato un asino slombato e un cavallo sfiancato, non riusciva a muovere un passo.

Ma Cecadritto, che vide il compagno in pericolo e sentito da Orecchie-di-Iepre come andava la faccenda, impugnò la balestra, tirò una freccia, colpendo giusto il dito di Furgolo, facendo saltare dall'anello la pietra dove era la potenza dell'incantesimo, per questo gli si sciolsero le gambe annodate e con quattro salti da capriolo oltrepassò Ciannetella e vinse la gara.

Il re, vedendo che aveva vinto un grullo, che la palma era in mano a un falcaccio, che il trionfo toccava a un pecorone, meditò se dovesse o no dargli la figlia e, fatta una riunione con i sapienti della sua corte, gli fu risposto che Ciannetella non era boccone per i denti di uno scalzacani e di un uccello perdigiorno e che, senza vergogna perché mancava alla parola data, avrebbe potuto commutare la promessa della figlia con un donativo in danari, che sarebbe stato più soddisfacente per questo bruttone miserabile di tutte le femmine del mondo.

Al re piacque questo parere e fece chiedere a Moscione quanto danaro volesse in luogo della moglie che gli era stata promessa e lui, consigliatosi con gli altri, rispose: «lo voglio tanto oro e argento quanto ne può portare sulla schiena un mio compagno». E, poiché il re fu d'accordo, fecero venire Forteschiena, sul quale cominciarono a caricare mucchi di bauli di soldoni, sacchi di patacche, borsoni di scudi, barili di monete di rame, scrigni di collane e anelli; ma, quanto più caricavano tanto più Forteschiena restava saldo, come una torre, tanto che, non bastando la tesoreria, le banche, gli usurai, i cambiavalute della città, il re mandò da tutti i cavalieri a chiedere in prestito candelieri, bacili, boccali, sottocoppe, piatti, guantiere, canestri e persino i vasi da notte d'argento e neanche bastarono a fare il peso giusto. Alla fine, non carichi ma soddisfatti e impazienti, se ne partirono.

Ma i consiglieri, che videro questo tesoro senza fondo che quei quattro scalzacani si portavano via, dissero al re che era una grande sciocchezza far portar via tutto il nerbo del suo regno e quindi sarebbe stato meglio mandare dietro le truppe per alleggerire di un cos1 grande carico quell'Atlante che portava sulle spalle un cielo di tesori.

Il re si adeguò a quel consiglio e spedì subito un poco di armati a piedi e a cavallo perché li raggiungessero. Orecchie-di-lepre, che aveva sentito di questa decisione, avvertì i compagni; e, mentre arrivava al cielo la polvere di chi veniva a scaricare questa ricca soma, Soffiarello, che vide la faccenda male avviata, cominciò a soffiare in modo che non solo fece cadere a faccia a terra tutti i nemici, ma li mandò, come fanno i venti del settentrione a quelli che camminano per la campagna, più di un miglio lontano.

Per questo senza altri ostacoli arrivarono a casa del padre, dove, dividendo con i compagni il guadagno perché si dice: a chi ti fa vincere la ciambella danne un pezzo li congedò, soddisfatti e contenti, e lui restò con il padre ricco senza fondo e si vide così un asino carico d'oro, confermando la verità del motto:

dio manda i biscotti a chi non ha denti".
 

Giambattista Basile
 

Da Lo cunto de li cunti. Ottavo passatempo della terza giornata.

Per chi ha dimestichezza col napoletano antico.
Il Parco Letterario Lo cunto de li cunti.

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