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IL MANUALE (ENCHIRIDION) di Epitteto

Indice III | II | I | Spotlights | Controcorrente

Prefazione

Epitteto (I-II sec. d.C)

Epitteto
(50-125 ca.)

Molto scarse le notizie biografiche su Epitteto. A parte un cenno fugace di Diogene Laerzio e una notizia indiretta di Simplicio, l'unica testimonianza propriamente detta si trova sulla enciclopedia bizantina Suda del X secolo. Si presume nato a Hierapolis, in Frigia, e poi portato come schiavo del potentissimo liberto Epafrodito a Roma al tempo di Nerone. Dopo essere stato liberato, si dedicò allo studio della filosofia sulla scia della dottrina dello stoico Musonio Rufo. Di Musonio Epitteto ereditò la forte impronta cinica, e la concezione pratica della riflessione etica tipica dello stoicismo romano. Fu bandito dall'imperatore Domiziano assieme ad altri filosofi riparando in Epiro, a Nicopolis, dove fondò una scuola che divenne presto famosa. Epitteto non dedicò alcuno scritto alla pubblicazione, e quanto è giunto fino a noi, le Diatribe e il Manuale,  lo dobbiamo alla redazione che ne fece il suo discepolo Arriano di Nicomedia.
Il pensiero del filosofo si diffuse ampiamente sia in ambiente stoico, sia presso altri pensatori di altre tendenze filosofiche. Fu comunque Marco Aurelio a ricordare l'illuminante parola di Epitteto nei suoi
Pensieri, menzionando in diverse parti dell'opera il proprio debito nei suoi confronti.
Delle numerosissime traduzioni del
Manuale che si sono succedute dall'umanesimo in poi, quella che merita una attenzione particolare è di Giacomo Leopardi. Egli vedeva questo testo di straordinaria utilità per l'uomo contemporaneo tanto da affermare nel preambolo che «non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricorsi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo». Dalla traduzione del Leopardi, abbiamo estratto quindi questa selezione  di pensieri di Epitteto.
Luca Liguori (1 marzo 2004)
 

Il manuale di Epitteto (Enchiridion)
traduzione di Giacomo Leopardi

Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti.
Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.
[…]
Astienti dunque dall'avversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che sono in nostro potere, e in quella vece fa' di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltà, si troveranno essere contro natura. Dall'appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocché se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestà dell'uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbero degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell'animo ad appetire o schivare, con questo però che elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto.
[…]
Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni ch'eglino hanno delle cose. Per modo di esempio, la morte non è punto amara; altrimenti ella sarebbe riuscita tale anche a Socrate; ma la opinione che si ha della morte, quello è l'amaro. Per tanto, quando noi siamo attraversati o turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sì veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni. Egli è da uomo non addottrinato nella filosofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato il non darla né a se stesso né agli altri.
Guarda di non insuperbire di alcuna eccellenza o di alcun pregio altrui. Se un cavallo montando in superbia dicesse; io son bello; ciò sarebbe per avventura da comportare. Ma quando tu ti levi in superbia dicendo: io ho un bel cavallo, avverti che tu insuperbisci di un pregio che è del cavallo. Sai tu quello che è tuo? l'uso che tu fai delle apparenze delle cose. Sicché quando nell'usare di queste apparenze tu ti reggerai conforme a quello che la natura richiede, allora tu piglierai compiacenza di te medesimo a buona ragione: imperocché quello sarà un pregio tuo proprio.
[…]
A ciascuna cosa esteriore che ti occorra, rivolgiti sopra te stesso e cerca quale delle facoltà che tu hai, si possa adoperare verso di quella. Se tu avrai veduto un bel garzone o una bella donna, troverai che da poter usare verso di queste cose, tu hai la facoltà della continenza. Se ti occorrerà una fatica da sostenere, troverai la facoltà della tolleranza. Se una villania, la pazienza. E così accostumandoti, tu non ti lascerai trasportare dalle apparenze delle cose.
[…]
Colui che ha in sua facoltà di dare o torre a una persona quel che essa vuole o non vuole, è padrone di quella cotal persona. Però chiunque ha volontà di essere libero, faccia di non appetire né fuggire mai cosa alcuna di quelle che sono in potestà d'altri; o che altrimenti gli bisognerà in ogni modo essere schiavo.
Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente.
[…]
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.
Quando un corvo gracchiando porge cattivo augurio, non ti lasciar muovere da sì fatta apparenza, ma subito distingui teco medesimo e dì: questo animale non prenuncia niuna disavventura a me proprio, ma forse a questo mio corpicino, o forse alla mia robicciuola, alla riputazioncella, ai figliuoli, alla moglie. Quanto si è a me, questo, se io voglio, è augurio buono, anzi ottimo. Imperocché io ricaverò utile dal successo, qual ch'egli sia per essere, solo che io voglia.
Tu puoi essere invitto, e ciò è se tu non ti metterai a nessun arringo dal quale tu non abbia in tua facoltà di riuscire colla vittoria.
Guarda che quando tu vedi uomini onorati o potenti o come che sia riputati e osservati, I'apparenza non ti faccia forza in maniera che tu li creda avventurosi e felici. Perciocché se la essenza del bene sta nelle cose che sono in nostra facoltà, non deono aver luogo né invidia né gelosia. E tu per la tua parte non vorrai essere né capitano di esercito, né presidente del consiglio, né console, ma libero: e a questo ci ha una sola via, che è non curarsi delle cose che non sono in nostro potere.
Ricòrdati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l' opinione che si ha che questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montar la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri. Per tanto sforzati d'impedire che l'apparenza non ti trasporti in sul primo; che se tu otterrai un poco di tempo e d'indugio, più agevolmente ti verrà fatto di vincerti e di contenerti. Abbi tutto giorno dinanzi agli occhi la morte, l'esilio e tutte quelle altre cose che appaiono le più spaventevoli e da fuggire, e la morte massimamente; e mai non ti cadrà nell'animo un pensier vile, né ti nasceranno desiderii troppo accesi.
[…]
Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sarà intervenuto di versarti, per dire così, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l'abito, e sarai uscito dei termini del tuo instituto di vita. Però non cercare altro mai che di essere filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa' che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti. .
[…]
Stabilisci a te stesso, come a dire, un carattere e una figura la quale tu abbi a mantenere da quindi innanzi sì praticando teco stesso e sì comunicando colle persone.
Tacciasi il più del tempo, o dicasi quel tanto che la necessità richiede, con brevità. Solo qualche rara volta, confortandovici il tempo e il luogo, discendasi a favellare distesamente; ma non di cotali materie trite e ordinarie, non di gladiatori o di corse di cavalli, non di atleti, non di cibi né di bevande, né di sì fatti altri particolari di che si ode a favellar tutto il dì, e sopra ogni cosa, non di persona alcuna lodando o vituperando o facendo comparazioni.
Fa', se tu puoi, di raddirizzare e ridurre al convenevole i ragionamenti dei compagni. Se tu ti ritroverai solo tra persone aliene dalla filosofia, tienti senza far motto.
Poche risa, e non grandi, e non di molte materie.
Non prendere mai giuramento, se tu potrai; se no, il più di rado che tu possa.
Schifa di trovarti a conviti di persone comunali e rimote dalla filosofia; e se ciò per alcuna occasione talvolta non si potrà schivare, ricorditi di stare desto e attento più del consueto, che tu non trascorressi nei modi e costumi della comune gente. Imperocché sappi che di necessità, se il compagno sarà lordo, e che tu gli praticherai dattorno, tu ti lorderai, ponghiamo che ora sii netto.
[…]
Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse male di te, non pigliare a scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza degli altri difetti che io ho, perocché, sapendogli, ei non avrebbe tocco solamente questi.
[…]
Non andare all' udienza di certi dicitori, anzi schifa di trovarviti in ogni modo. Che se per ventura vi ti troverai, fa' di serbare una contenenza grave e soda, e non però spiacevole nè superba.
Accadendoti di dover venire a qualche ragionamento o pratica con chicchessia, e specialmente con alcuni di quelli che sono reputati soprastare agli altri, proponti dinanzi agli occhi quello che avrebbe fatto in tale occorrenza o Socrate o Zenone; e tu non sei per mancare del modo di portarti convenientemente in ogni caso.
Andando a trovare alcuno dei potenti, mettiti nell'animo che tu non sei per trovarlo a casa, ch'egli si sarà serrato dentro, che non ti sarà voluto aprire l'uscio, che colui non ti darà mente. E se con tutto questo, per non mancar dell'ufficio tuo, ti conviene andare, pòrtati in pace ogni cosa che t'intervenga, e non dire mai fra te stesso: egli non portava il pregio; che è un parlare da uomo ordinario e dato tutto quanto alle cose esterne.
Guarda bene nei cerchi e nelle compagnie, che tu non istéssi a far troppe parole intorno ad azioni fatte o a pericoli sostenuti da te medesimo. Perciocché non siccome egli piace a ciascuno di raccontare i propri pericoli, così riesce dilettevole alle persone l'udire le avventure di chi favella.
Non istare anco a studiarti di muovere il riso; perché ciò facendo, si porta pericolo di trascorrere ai modi e all' usanza dei più; oltre che di leggieri avverrebbe che i circostanti rimetterebbero più o manco della loro riverenza verso di te.
[…]
Se tu prenderai a fare una persona da più che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente.
[…]
Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli opera ovvero parla in quel cotal modo, stimando che di così fare ovvero parlare gli appartenga e stia bene. Ora è di necessità che egli si governi, non conforme a quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicché se a lui pare il falso, esso si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s'inganna. Pigliamo una verità di quelle che chiamano connesse: se uno la si crederà falsa, non la verità, ma questo tale, ingannandosi, porterà il danno. Per sì fatta guisa discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerà; perocché ogni volta tu hai da dire: così gli è paruto che convenisse.
[…]
Queste cotali argomentazioni non reggono: io sono più ricco di te, dunque io sono da più di te; io più letterato di te, dunque io sono da più. Queste altre reggerebbero bene: io sono più ricco di te, dunque la mia roba è da più che la tua; io più letterato di te, dunque la mia dicitura val più che la tua. Ma tu non sei né roba né dicitura.
[…]
Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi ancor smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udire questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a fare frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch'elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni.
[…]
Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlare male di alcuno; non lodare chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellare cosa alcuna di sé come di persona di qualche peso o che s'intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputare la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodare; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch'ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l'avversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dare luogo a prime inclinazioni e primi moti dell'animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all'erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore.
[…]
Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poiché questa parte non è in tuo potere.
[…]
Ancora: chiunque sa bene accomodarsi alla necessità, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine.
Ancora in terzo luogo: o Critone, se così piace agli Dei, così sia. Anito e Melito mi possono bene uccidere, ma non già offendere.
 

Epitteto

 il desiderio  l'avversione  le cariche pubbliche

Fonti:
Manuale di Epitteto. Biblioteca Universale Rizzoli, III edizione 2000.
Filosofi e filosofie nella storia di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero - Edtore Paravia, 1992.

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